L'Italia unita - Attività economiche e produttive - Economia marittima - Navigazione

L’apogeo della vela e le difficoltà della navigazione a vapore

L’Unificazione italiana produce effetti di segno opposto sulla marina mercantile del golfo di Napoli. La flotta velica vede rafforzato il ruolo acquistato nel commercio marittimo internazionale durante il periodo borbonico e contribuisce – assieme a quella ligure – a porre l’Italia unita tra le prime marine del mondo; al contrario viene compromesso e vanificato ogni ulteriore sviluppo dell’armamento a vapore. La Compagnia di navigazione a vapore delle Due Sicilie, esclusa dalla ripartizione delle linee postali sovvenzionate (1862), non riesce a reggere la concorrenza delle società genovesi e palermitane e viene posta in liquidazione (1865).

Marina di Cassano a Piano di Sorrento, 1871-1872 ca.
Il cantiere navale del cavaliere Aniello Castellano con tre bastimenti in costruzione contemporaneamente.
Fotografia, collezione privata.

L’armamento a vela del golfo, quindi, prosegue il suo vigoroso sviluppo grazie al saldo ancoraggio della nuova compagine statale nel contesto internazionale. La crescente importanza assunta dal Mediterraneo nelle rotte commerciali – l’apertura di Suez ne è un  chiaro segnale – permette a marinerie come quella napoletana, pur prive di significative quantità di merci proprie da immettere nel mercato, di affermarsi accanto a quelle di più antica tradizione. Gli equipaggi mediterranei, favoriti dalla forte domanda di noli per il trasporto di derrate alimentari e di materie verso le aree industrializzate, grazie ad una gestione di tipo familiare, sono in grado di farlo a prezzi assolutamente concorrenziali e con notevoli profitti.
Gli operatori marittimi del golfo di Napoli sono secondi solo ai genovesi: mentre nei porti liguri, intorno al 1861, operano oltre 400 grandi velieri d’altura, nel golfo di Napoli la flotta d’altura supera abbondantemente le 200 unità. Nessun’altra regione d’Italia dispone di un potenziale simile; negli anni a venire, pure in presenza di una fortissima espansione ligure e con l’annessione del Veneto e dello Stato Pontificio, la quota di partecipazione della marineria napoletana non scenderà mai sotto il 15% del tonnellaggio complessivo.

Brigantino a palo Carmela C., 597 tonnellate s.l., dell’armatore Francesco Saverio Cacace di Meta, varato alla marina di Alimuri nel 1879, costruttore Giuseppe Starita, detto Licignone. Fotografia del modello realizzato da Giovanni Esposito nel 1967 (Museo Mari Maresca, Meta)

È l’età dell’oro della navigazione a vela e, come tutte le marinerie impegnate nella navigazione oceanica, anche i centri marittimi della provincia di Napoli adottano il brigantino a palo, detto “barco”, tra le 400 e le 600 tonnellate. Si tratta di un tre alberi con una grande superficie velica mista, che rappresenta un felice compromesso tra capacità di carico, gestione economica e tecnica di navigazione per le differenti condizioni di vento che si incontrano sulle rotte che collegano l’Atlantico e il Mediterraneo.

Il brigantino a palo Thomas, ex Carlo, nel porto di Napoli a fine Ottocento. 751 tonnellate s.l., varato a Castellammare di Stabia nel 1879, costruttore Giacomo Bonifacio, per conto dell’armatore e commerciante internazionale di grano Mariano Cacace di Meta; dal 1896 armato dai Fratelli Trapani sempre di Meta ed infine, dal 1903, da Tommaso Astarita. Fotografia, collezione privata.

I bastimenti realizzati nel golfo di Napoli si distinguono a tal punto, che a partire dal 1867 ottengono di essere registrati nella classe eccezionale di merito superiore del Bureau Veritas, il Registro navale pubblicato a Parigi. I cantieri posti nelle marine di Procida, Alimuri (Meta), di Cassano (Piano di Sorrento), di Castellammare di Stabia e, in misura minore, quella di Equa (Vico Equense), in un ventennio varano alcune centinaia di grosse imbarcazioni (tra 300 e 500 tonnellate), anche su commessa di  armatori liguri, siciliani e sudamericani.
Comunque il 75% di queste imbarcazioni è armato dai casati armatoriali della costiera sorrentina, numerosissimi in particolare nel territorio del Piano, che assume i caratteri di una vera a propria comunità del mare: antiche scuole nautiche per la formazione di ufficiali e costruttori, cantieri navali con tutti i mestieri dell’indotto (maestri d’ascia, fabbri, velai, calafati), rigogliose società di assicurazioni, luoghi di ritrovo per la gente di mare (come il Caffé Fariello a Meta, dove si contratta tutto ciò che serve per le costruzioni e le campagne di navigazione), commercianti, organizzazioni assistenziali e professionisti rinomati, come notai e giuristi, specializzati nelle questioni di diritto marittimo. Tra i gruppi armatoriali un posto di rilievo spetta alla Ditta Ciampa di Sant’Agnello, la cui flotta è tra le prime in Italia.

Il Genista, 1750 tonnellate di s.l., nave in ferro dell’armatore metese Tommaso Astarita, in un porto del Nord Europa prima del 1914. Fotografia, collezione privata.

Capitani e armatori, per accaparrarsi i carichi più remunerativi, contano su di una rete di familiari e concittadini, che risiedono nei principali porti (Odessa, Genova, Marsiglia, Anversa, Brema, Newcastle, Pietroburgo, Boston, New York), svolgendovi le più svariate mansioni legate al mondo del commercio marittimo: agenti, sensali, commercianti, periti navali, assicuratori o altro. 
A Napoli il quartiere marinaro è il Piliero – ora cancellato dalle trasformazioni urbanistiche – dove si concentrano le attività legate alla marineria. Vi vivono moltissime famiglie della costiera sorrentina e delle isole del golfo, che normalmente “svernano” a Napoli per stare vicino ai loro uomini impegnati nel multiforme pullulare di attività legate al porto, alla navigazione e al commercio marittimo.
L’epoca del massimo perfezionamento della navigazione a vela è anche l’ultima; a fine ‘800 la propulsione a vapore risolve i problemi tecnici, che l’avevano quasi confinata al trasporto passeggeri. Il tramonto delle navi di legno e della propulsione eolica nel trasporto marittimo è lento e diviene definitivo solo nei primi decenni del Novecento. L’ultimo momento di gloria della vela è quella dei grandi scafi di ferro e acciaio armati con una possente velatura, manovrata con argani a vapore, in grado di portare a prezzi molto bassi grandi quantità di merci in qualsiasi parte del mondo. Sono giganti del mare, lunghi anche fino a cento metri e dalla portata che oscilla tra 1.000 e 3.000 tonnellate di stazza lorda, tutti utili al carico, visto che non hanno nella stiva apparato motore, né deposito di combustibile.
In Italia riescono a dotarsene solo i genovesi e i napoletani. Nel golfo di Napoli, dove operano per lo più ditte a base economica familiare, solo pochi casati, tra i più solidi, ne acquistano circa trentacinque: i Lauro, i Cafiero, i Califano, i Maresca, i Cacace, i D’Abundo, gli Scotto Lachianca. Cominciano i Ciampa, che dopo averne preso uno in Gran Bretagna – seguiti da tutti gli altri – ne ordinano tre ai cantieri Ansaldo di Sestri. Tommaso Astarita, invece, che ha costituito la «Società di Navigazione a Vela», arma ben sette velieri di acciaio, acquistati usati sempre in Gran Bretagna. Tutti questi grandi velieri andranno perduti durante la Grande guerra.

Francesco D'Esposito e Biagio Passaro

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