Tra le due guerre
La crisi postbellica e l’avvento del fascismo
 

La I guerra mondiale lascia l’Italia, pur vittoriosa, nella crisi tipica di queste fasi con l’enorme sviluppo di alcuni settori industriali che vanno riconvertiti, alterazione dei flussi commerciali, deficit del bilancio statale, inflazione, fermenti sociali.
La rivoluzione russa del 1917 diventa modello e punto di riferimento per la classe operaia, i contadini rivendicano quanto loro promesso durante la guerra, i ceti medi si mobilitano in nome dei propri interessi e del patriottismo. La guerra legittima una nuova dimensione della massa protagonista delle battaglie, che rivendica il suo spazio. Tale massa, egemonizzata soprattutto dai cattolici col Partito popolare (1919) o dal socialismo massimalista e da quello rivoluzionario che si ispira all’esperienza dei soviet russi, raccoglie anche la piccola borghesia sensibile ai discorsi nazionalisti e alla difesa dei “valori della vittoria” nella guerra appena conclusa. La crisi dei vecchi gruppi politici liberali è confermata dal successo dei popolari e dei socialisti nelle elezioni del 1919, indette con la rappresentanza proporzionale con scrutinio di lista.  L’occupazione delle fabbriche nel settembre 1920 e le divisioni nel movimento socialista portano alla scissione dal Partito socialista italiano (Psi) della corrente di sinistra e alla fondazione nel 1921 del Partito comunista (Pc) ad opera di Bordiga e Gramsci.
La rapida fortuna dei “Fasci di combattimento”, creati nel 1919 da Benito Mussolini, si basa sull’antisocialismo e su ideali repubblicani, ma sono determinanti il nazionalismo, lo stile politico aggressivo e violento, la sensazione di “vittoria mutilata” nei trattati di pace post-bellici, le agitazioni sociali e l’elevato numero degli scioperi organizzati dalle associazioni sindacali, l’occupazione di terre e latifondi da parte di contadini poveri, spesso ex combattenti.
Il successo della marcia su Roma, con la quale il 28 ottobre 1922 si attua il colpo di stato, prelude alla fine dello stato liberale che si consuma nel 1925-26, dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti che aveva denunziati i brogli elettorali dei fascisti nelle elezioni del 1924. Si avvia il controllo persecutorio sulla stampa, sugli uomini, sui partiti dell’opposizione, ben presto sciolti. Adunate di cittadini in uniforme, toni propagandistici, culto del capo, sono gli aspetti esteriori dello Stato totalitario che impone il partito unico, la milizia, i sindacati di regime, nonché una propria visione dei rapporti economici e sociali.

Il fascismo e l’organizzazione del consenso
Si manifesta anche in Italia la recessione seguita alla crisi di Wall Street del 1929, sintomo di una crisi diffusa e del malessere economico, e dagli anni trenta si affermano regimi antidemocratici (fascismo, nazismo, comunismo) nell’Europa centro-orientale, nei Balcani, nella penisola iberica, in Russia.
Lo sviluppo in Europa dei consumi di massa avviene tramite la diffusione della radio e del cinema, mezzi di svago ma anche di propaganda, insieme alle foto ufficiali e alla stampa illustrata. Si diffonde in Italia con questi mezzi il messaggio del regime fascista, di stampo conservatore, il cui dinamismo è proiettato sulla costruzione dell’uomo nuovo e della grandezza della patria, ottenuta controllando i contrasti sociali grazie ad un sistema corporativo. I messaggi di nazione, gerarchia, ordine sociale, procurano al governo il consenso dei ceti medi e di parte dell’alta borghesia, confortati anche dalla regolarizzazione dei rapporti con la Chiesa grazie ai Patti Lateranensi (1929).
Passando dall’iniziale liberismo al protezionismo (1925), l’intervento statale diventa pervasivo, nell’ottica dell’autosufficienza cerealicola (“battaglia del grano”) e della rivalutazione della lira per la stabilità monetaria (“quota novanta”). L’opinione pubblica, opportunamente orientata, appoggia anche la politica coloniale, con l’aggressione all’Etiopia (1935), che approfondisce tuttavia la frattura tra l’Italia e le potenze democratiche europee; l’intervento nella guerra civile spagnola e il riavvicinamento alla Germania preludono tuttavia ad una subordinazione di Mussolini alle scelte di Hitler con il “patto d’acciaio” (1939).

La crisi del consenso, la guerra, il crollo del regime
I solo parziali successi dell’impresa etiopica e della politica dell’autarchia si accompagnano ad un diffuso malcontento per l’ avvicinamento alla Germania e la  discriminazione verso gli ebrei.
La seconda guerra mondiale, iniziata con l’attacco di Hitler alla Polonia (1 settembre 1939), dopo essersi garantito l’appoggio dell’URSS con il patto di non aggressione, vede l’Italia inizialmente su una posizione di “non belligeranza”. Di fronte ai rapidi successi dell’offensiva tedesca sul fronte occidentale,  con l’occupazione della Francia, Mussolini decide di intervenire a fianco dell’alleato nazista, convinto della fine imminente della guerra. L’approssimazione della preparazione è evidente negli insuccessi dell’esercito italiano sia contro i francesi che in Grecia e nel nord Africa, sì da dover ricorrere all’aiuto dei tedeschi.
La mondializzazione del conflitto si precisa con la battaglia d’Inghilterra (1940), l’invasione dell’URSS da parte della Germania e l’ingresso degli Stati Uniti nella Guerra (1941), mentre il legame Giappone-Germania dà luogo a simili politiche nazionaliste e razziste. La svolta del 1942-43 con la sconfitta dei giapponesi nel Pacifico e dei tedeschi a Stalingrado, il ritiro delle forze dell’asse dal fronte nord africano e lo sbarco degli anglo-americani in Sicilia, incidono sulla caduta di Mussolini e del fascismo, avvenuta il 25 luglio del 1943.
L’armistizio dell’8 settembre 1943 fra l’Italia e gli anglo-americani getta il Paese allo sbando, col re Vittorio Emanuele III e il governo Badoglio fuggiti a Brindisi e l’occupazione dell’Italia centro-settentrionale da parte dei tedeschi.
La sconfitta dei tedeschi da parte degli anglo-americani e dei russi e dei giapponesi da parte degli Stati Uniti, dopo l’esplosione delle bombe atomiche ad Hiroshima e Nagasaki, pone fine alla guerra.

L’antifascismo
Gli esponenti dei partiti messi al bando dal fascismo, che mantengono un atteggiamento critico verso il regime, sono internati o svolgono un’attività clandestina di opposizione. Rispetto all’opposizione piuttosto silenziosa di ex popolari e liberali, sono molto attivi i comunisti e gli esponenti del gruppo di impostazione liberal-socialista “Giustizia e libertà”. Socialisti, repubblicani, democratici, riuniti nel 1927 nella Concentrazione antifascista, dibattono sulle forme di lotta per la sconfitta del regime e rappresentano una testimonianza di persistente vitalità intellettuale, elaborando un patrimonio di idee e di quadri politici che avrebbero operato nel momento della ripresa della vita dei partiti e della democrazia.

Il formarsi di bande partigiane e il ricostituirsi dei partiti antifascisti dopo l’8 settembre del 1943 danno luogo al Comitato di liberazione nazionale. Nell’aprile del 1944 si forma il primo governo di unità nazionale con i partiti del Comitato; indi  è creato il governo Bonomi, dopo la liberazione di Roma e l’abdicazione del re a favore del figlio Umberto.

Renata De Lorenzo

 
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