Tra le due guerre

"Fu la guerra a far passare la popolazione napoletana da una passiva adesione all'ostilità verso il fascismo"

la memoria più lunga


Vera Lombardi è una figura-simbolo della sinistra napoletana. Nella sua lunga vita è stata testimone lucida e attenta di tutti i grandi avvenimenti del nostro secolo e partecipe della vicenda politica italiana dal dopoguerra ad oggi. La sua onestà intellettuale e il suo impegno politico, culturale e civile hanno fatto di lei un punto di riferimento importante, soprattutto per i giovani. Qui ci porta il contributo della sua esperienza personale alla ricostruzione degli anni del fascismo e dell'antifascismo a Napoli

a cura di Vera Maone

Sono nata nel 1904 in una famiglia di tradizioni socialiste. Due fratelli di mia madre erano deputati socialisti, mio padre era stato eletto nel 19 nelle liste del Psi nel collegio di Trani- Corato, in Puglia, con un largo suffragio. Ma, a parte gli incarichi ufficiali, c'era nella mia famiglia un grande interesse per la politica e in casa si facevano discussioni appassionate. Io ho trovato di recente, fra le carte dell'Icsr (l'Istituto Campano per la storia della Resistenza, di cui Vera Lombardi è presidente, ndr), un numero de "L'Avanti" del 1906, in cui, in prima pagina, c'era un articolo di mia madre. Lei ha anche fatto parte dello staff di traduttori che ha curato, per le edizioni de "L'Avanti", la pubblicazione di tutte le opere di Marx ed Engels. Ma poi, dopo la nascita dei figli, non ha potuto più impegnarsi a fondo nella politica. Quindi io sono arrivata naturalmente, senza mio merito, a questa scelta di campo, ma l'ho vissuta con convinzione profonda. Per la sua attività politica, mio padre fu arrestato due volte: la prima, nel 21, in Puglia, nel clima di repressione e violenza, scatenato contro contadini e operai in lotta, dai fasci di combattimento, che in quell'occasione fecero le loro prime prove.
La seconda, mi pare, nel 45. Egli non poté esercitare la sua professione di avvocato penalista perché la sua posizione politica gli alienava i clienti. Allora si è dedicato agli studi di criminologia e, agli inizi degli anni 30, in un tempo in cui le scienze sociali erano considerate sospette, ha pubblicato una serie di opere, tese a dimostrare "con l'aiuto della storia, della filosofia e della sociologia, che il reato è un fenomeno del tutto sociale e non antropologico", come lui stesso dice nell'introduzione a "Costume sociale e delinquenza". E in "Civiltà e delitto": "Trasportare il fato dal cielo alla terra, identificandolo con l'azione delle forze sociali ed economiche: ecco l'esigenza nuova, non adempiuta dai sistemi che immaginavano lo Spirito come guida sovrana del mondo sociale: e viceversa ridussero la coscienza umana a una funzione pressoché fisiologica". Un programma così non poteva essere apprezzato dal regime, che infatti ordinò il sequestro di uno dei suoi libri, non ricordo più quale. Negli anni del liceo che ho frequentato a Napoli, all'Umberto, è iniziata la mia formazione culturale e politica. La scuola era allora impostata in maniera tradizionale. L'insegnamento era cattedratico e autoritario, il sapere nozionistico. Studiavamo la letteratura sui manuali di storia letteraria, concepita, come la storia, in modo idealistico, come un processo che si svolgeva nella sfera delle attività dello spirito, senza nessun rapporto con la realtà sociale. Non leggevamo i testi e la storia si fermava all'età del colonialismo. Mai incontrato Marx. Nessuna informazione su ciò che avveniva intorno a noi, non dico nella società, ma nella cultura. Non una parola sul decadentismo o sui movimenti d'avanguardia. Nulla su ciò che avveniva fuori dell'Italia . Nel mio liceo c'era una sezione tutta femminile, la sezione A.
Non c'erano allora classi miste. Ma un gruppetto di quattro ragazze, tra cui io, non volendo lasciare un bravo professore di latino e greco, che avevamo avuto al ginnasio e che insegnava al liceo nel corso B, ci battemmo per ottenere, e ottenemmo eccezionalmente, di frequentare questo corso che era tutto maschile. Al liceo Umberto sono poi tornata come insegnante nel 45, appena cadde, col fascismo, la preclusione per le donne di insegnare storia e filosofia nei licei. Il sistema scolastico italiano fu modificato nel 23 in base alla riforma Gentile, che solo in parte fu dovuta all'iniziativa di Mussolini, che aveva interesse ad attrarre nella sua orbita gli intellettuali. La riforma aveva alle spalle un ampio movimento culturale, di severa critica al positivismo e ai contenuti e ai metodi della scuola ad esso ispirata, che faceva capo a Croce e allo stesso Gentile, oltre che un grosso dibattito, portato avanti fin dai primi del secolo dalle associazioni professionali degli insegnanti, sulla necessità di una riforma della scuola, rimasta ferma alla legge Casati del 1859. Si avvertiva l'esigenza di un'impostazione degli studi che, prendendo le distanze dal positivismo, recepisse i più recenti risultati della ricerca filosofica e storica di orientamento idealistico, insieme a quella di un nuovo ordinamento scolastico che facesse fronte all'eccessivo affollamento delle scuole medie superiori.
Da questo poteva derivare, infatti, un abbassamento degli studi e un pericolo di destabilizzazione sociale per l'impossibilità del regime di dare uno sbocco occupazionale a tutti i diplomati e laureati. La riforma Gentile rispose in modo organico a questi problemi.
L'impianto culturale della nuova scuola fu orientato in modo rigido sulla prevalenza delle discipline umanistiche e sulla netta svalutazione degli studi tecnici, mentre l'accesso agli studi superiori fu ristretto, mediante una selezione severissima, a pochi. Quindi, identificando lo stato etico di hegeliana ascendenza con lo stato fascista, Gentile affermò il carattere nazionale dell'educazione e affidò allo stato il compito di formare le élites dirigenti. A questa riforma, che investiva anche gli ordini inferiori di studi, furono apportati nel tempo una serie di ritocchi e modificazioni che ne alterarono la sostanza, ne accentuarono gli elementi nazionalistici e il carattere autoritario e ne fecero uno strumento di totale controllo sulla scuola da parte dello stato totalitario. Nel 26 i sindacati dei professori medi e universitari furono sciolti e sostituiti dall'Associazione nazionale degli insegnanti fascisti che si chiamò poi Associazione fascista della scuola, alle dipendenze dirette del partito, alla quale gli insegnanti furono obbligati ad aderire. I passi successivi furono l'introduzione del libro unico di stato e la supervisione sulla scuola affidata all'Opera Nazionale Balilla, il cui compito era quello di promuovere l'educazione fisica e morale della gioventù e fondarla sull'assoluta fedeltà al regime. I maschi furono quindi inquadrati nei "Balilla" dagli otto ai quattordici anni e negli "Avanguardisti" dai quattordici ai diciotto. A diciotto anni entravano nel Fascio. Le femmine erano rispettivamente "Piccole italiane" e "Giovani italiane". Il loro inno suonava così: Salve Italia! I tuoi destini /regge un Tal che ha fermo il core: / a Benito Mussolini vada tutto il nostro amore/ ...Degne siam dei nostri padri/ pel coraggio e per l'ardire/ e sarem l'itale madri, / pronte a tutto, anche a morire. Più tardi, nel 35, anche i bambini dai sei agli otto anni furono irreggimentati nei "Figli della lupa" ed ebbero la loro divisa e una dotazione di armi di legno. Nel 37 a tutti questi gradi fu sostituita un'unica organizzazione, la "Gioventù italiana del Littorio", alle dipendenze del segretario del partito fascista, in cui erano inquadrati tutti i giovani dai sei ai ventun anni.
Parallelamente fu introdotta nelle scuole l'istruzione pre e post militare che fu affidata, oltre che alla Milizia, alla Gioventù Italiana del Littorio. Si procedette quindi alla "bonifica integrale della scuola", che significò l'asservimento totale della scuola al regime. Nel 38, a seguito delle leggi razziali, una commissione nominata dal Ministero della cultura popolare procedette alla "bonifica" di tutta la produzione libraria italiana e di quella straniera tradotta in italiano in base alle nuove direttive. Gli insegnanti e gli studenti ebrei furono espulsi dalle scuole e dalle università.
Per imporre una simile cappa al mondo della cultura e della scuola fu necessario mettere a tacere non solo gli oppositori politici, già in gran parte allora nelle carceri, al confino o in esilio, ma anche uomini di cultura, professori universitari e medi, artisti, editori, librai, che non si identificavano col regime. Nel corso di quegli anni, in cui sono passata dagli studi superiori all'Università e quindi all'insegnamento, io partecipavo agli incontri clandestini di antifascisti che si svolgevano in case private, come casa Croce, a palazzo Filomarino, dove si riunivano molti intellettuali, o casa Del Valle, a via Aniello Falcone, oppure alle libreria Guida di Piazza dei Martiri e Detken di piazza del Plebiscito, o, ancora, al Caffè Gambrinus. Si discuteva molto fra noi e ci scambiavamo libri e materiali clandestini sulla situazione interna e internazionale, sulla guerra di Spagna, sull'Urss. Avevamo contatti con i fuoriusciti e attraverso amici francesi avevamo informazioni sulla Russia. Sapevamo già allora dei processi staliniani e della piega illiberale che aveva preso la rivoluzione sovietica. Io andavo sempre più convincendomi, in quegli anni, che il socialismo non potesse essere disgiunto da una piena attuazione della democrazia, dal rispetto della persona umana, dalla partecipazione attiva dei cittadini alla via politica. Tuttavia, nonostante le mie riserve, non sono mai stata anticomunista, né allora, né dopo. In quel momento il Pci era il partito degli operai, quello che più di altre forze politiche si faceva carico dell'organizzazione dell'antifascismo e interprete delle aspirazioni delle classi lavoratrici. Il dissenso che veniva dagli intellettuali si risolveva in una resistenza passiva più che nella propaganda o nell'organizzazione di lotta per l'abbattimento del regime, a cui lavoravano, invece, gli esponenti del Pci e di altri partiti che si muovevano nella clandestinità, e con loro operai, artigiani, piccoli commercianti, che pagarono con licenziamenti e dure condanne il loro impegno politico.
A Napoli fu il Pci a dare il primo impulso all'azione, a curare i collegamenti fra le varie cellule operaie interne alle fabbriche e a promuovere iniziative coordinate. Si lanciavano manifestini e appelli dal ponte della Sanità, dal ponte di Chiaia, da quello in Via Poggioreale, si attaccavano francobolli con messaggi antifascisti sui portoni, sui tram, nei luoghi pubblici.
Allo scoppio del conflitto, l'atteggiamento di passiva accettazione, accompagnato in qualche caso da opportunismo e calcolo personalistico, che aveva caratterizzato l'adesione al fascismo del popolo napoletano (il quale peraltro non si peritava di far girare barzellette e battute sul regime, come quella che traduceva la sigla del Pnf sul distintivo nel motto "Per Necessità Familiari") - dopo che, come nel resto d'Italia, era stata contrastata con la forza ogni forma di opposizione - mutò a causa delle terribili conseguenze della guerra che la città cominciava a patire. Le perdite umane, le distruzioni, la mancanza di vivere, i bombardamenti generarono in breve tempo una sotterranea e diffusa ostilità verso il fascismo, che dopo l'8 settembre si estese al Governo Badoglio. Questo malcontento andò crescendo fino ad esplodere, quando si aggiunsero agli altri patimenti l'occupazione tedesca e la deportazione dei giovani.
Ma le Quattro giornate di Napoli non furono solo una rivolta spontanea. I focolai d'insurrezione che scoppiarono in vari punti della città si diedero rapidamente un'autorganizzazione; il nucleo del Parco Cis, sotto il comando del colonnello Bonomi, divenne una sorta di Quartier Generale, mentre altri gruppi armati al Vomero, a Case Puntellate e in altri quartieri, si constituirono intorno a figure di esponenti politici o di vecchi antifascisti. E dopo la prima grande fiammata popolare, si stabilì una rete di collegamenti fra i vari gruppi e fu possibile, per iniziativa di Eugenio Mancini, indire una sorta di consiglio di guerra con tutti i comandati degli insorti per coordinare le azioni.
Giunse in quel momento a maturazione un processo che, se pure si manifestò come esplosione improvvisa, aveva avuto in realtà una lunga gestazione. Fin dal 1930, infatti, era iniziata nelle principali fabbriche napoletane, all'Ilva di Bagnoli, alla Precisa, alla Miani e Silvestri, alla Centrale termoelettrica di Vigliena, ai Bacini e Scali napoletani, un'opera di propaganda antifascista e di proselitismo di notevole ampiezza ed efficacia.
Ad animarla fu il cosiddetto Gruppo di Portici, formato da intellettuali e operai comunisti, come Manlio Rossi Doria, Emilio Sereni, Gennaro Rippa, Antonio Panico. Quando le fabbriche, specialmente quelle meccaniche, per incrementare la produzione di materiale bellico in vista della guerra di Etiopia e dell'invio di truppe in Spagna, ebbero bisogno di assumere altra manodopera, migliaia di operai, uomini e donne, furono ingaggiati, senza pregiudiziali politiche.
Fu così che, come racconta Gennaro Rippa, in una testimonianza conservata negli archivi dell'Icsr, "...questo incremento di proletarizzazione fu per noi comunisti un grande vantaggio per sviluppare l'organizzazione... Il fatto più importante fu quello dell'uscita dall'isolamento in casa di molte donne e gli uni e gli altri cominciavano a parlare la nostra lingua contro la guerra, lo sfruttamento, sul salario, la prepotenza fascista".
Durante la guerra il processo di politicizzazione delle masse operaie andò oltre. "...Le bombe non distruggevano solamente i beni e le vite umane... ma distruggevano anche il preteso prestigio dei dittatori e forse anche la fede religiosa. Si cominciava a parlare apertamente e con nostra gioia; i nostri slogan, le nostre parole d'ordine propagandate per anni diventarono di dominio delle masse popolari".
E dopo l'8 settembre, sotto l'occupazione tedesca, a rischio della vita, durante le ore del coprifuoco, gli operai continuarono la loro propaganda, attaccando per la città i manifestini con su scritto: "Morte ai tedeschi". Io non ho partecipato alla lotta armata. I miei genitori, già molto provati e anziani, si erano trasferiti a Roma, accettando l'ospitalità di alcuni parenti. Io rimasi ancora per qualche tempo a Napoli, poi li raggiunsi il 17 luglio del 43, perché c'era assoluto bisogno del mio aiuto in famiglia. A Roma facemmo letteralmente la fame.
Mio fratello Franco, che si era esposto per la sua attività antifascista e aveva sposato una donna ebrea, Iole Tagliacozzo, impegnata anche lei nel lavoro politico, aveva affittato una casa a Monte Verde, in un palazzo abitato quasi completamente da ebrei, che si nascondevano lì con nomi falsi. Solo al pianterreno abitavano persone a noi sconosciute, che non sembravano avere problemi con la polizia politica. Scoprimmo poi, in occasione della morte del vecchio padre e dei funerali che si svolsero nel cimitero ebraico, che anche queste persone erano ricercate. Dovemmo a quel punto allontanarci tutti di lì.
Ci sono alcuni episodi che voglio ricordare qui, che riguardano mia cognata Iole, a me carissima. Una volta, per sfuggire a uno dei rastrellamenti che si susseguivano con sempre maggiore frequenza a Monte Verde, dove erano rifugiati molti ebrei, fu letteralmente seppellita, nelle fondamenta del palazzo dove abitavamo, in un piccolo cunicolo dove si poteva entrare solo a quattro zampe. Mio fratello, che aveva escogitato questo nascondiglio, lo chiuse poi con un masso e lo ricoprì di terra.
E Iole restò lì per un giorno intero. Un'altra volta mio fratello ebbe l'ardire di presentarsi all'ufficio dell'anagrafe con una fotografia di mia cognata e di fare una richiesta rischiosissima, quella di un nuovo documento, raccontando una storia che suonava pressappoco così: ho una sorella sventata, che ha perso il suo documento di identità in queste e queste altre circostanze. E ottenne un documento falso, rilasciato dalle autorità competenti! Un'altra mia sorella, Nora, che aveva sposato un fratello di Iole, Enzo Tagliacozzo, era riparata a Londra con il marito nel 39. Lì mio cognato aveva trovato lavoro alla Bbc e trasmetteva da Radio Londra i bollettini per l'Italia. Ma anche lì la vita non era senza pericoli: mio cognato riceveva continuamente lettere minatorie e inequivocabili biglietti con l'immagine del teschio. E poi c'erano i bombardamenti a tappeto. Così nel 40 si trasferirono negli Stati uniti. Lì mia sorella fece, durante la guerra una trasmissione radiofonica diretta agli italiani in cui passava messaggi antifascisti.
Io ho sempre rimpianto di non avere partecipato alla lotta armata. Avevo i nervi saldi e avrei potuto dare anche per questo il mio contributo attivo a quella lotta. Mi era capitato una volta, di ritorno da Parigi, di essere fermata e perquisita alla frontiera. Avevo con me del materiale compromettente, fra cui lo statuto dell'Urss del 36, che era un libretto di piccolo formato.
Io lo avevo nascosto fra due fette di pane e il pacchetto di presentava come un sandwich. Ci fu un esame minuzioso del mio bagaglio, durante il quale io rimasi assolutamente impassibile, senza tradire alcuna emozione o timore. La passai liscia non so neppure io come. Liberato il Mezzogiorno, la Commissione alleata di controllo istituì una sottocommissione all'Istruzione, di cui fu direttore il pedagogista americano Garleton Washbourne, che operò con la collaborazione di inglesi, americani e intellettuali italiani, con il compito di riformare la scuola italiana e liberarla dall'impronta fascista. In realtà, pur essendo il Washbourne animato da intenzioni illuminate, la preoccupazione principale di questa commissione fu quella di contrastare ogni possibile influenza di sinistra sulla scuola, in un momento in cui lo slancio rivoluzionario, il cosiddetto "vento del Nord", investiva tutti gli aspetti della società e si poneva perciò anche l'obiettivo di una scuola riformata su basi democratiche.
Né gli alleati volevano alienarsi la chiesa, assolutamente contraria a ogni apertura, che essi consideravano, non a torto, una potente alleata contro il pericolo comunista. Le cose non cambiarono neanche quando si insediò il nuovo governo italiano e al ministero della Pubblica istruzione andarono uomini come Adolfo Omodeo, Guido De Ruggiero, Vincenzo Arangio Ruiz.
L'impianto della scuola gentiliana con la netta distinzione fra indirizzo classico-umanistico e indirizzo tecnico-professionale restò in piedi e la scuola rimase fortemente selettiva a danno delle classi popolari. Nessuna delle aspirazioni ad un rinnovamento della scuola nei contenuti e nei metodi, nutrite da quanti si erano battuti contro il fascismo, si realizzò all'indomani della Liberazione. Nel documento rivolto agli insegnanti e agli alunni il 26 agosto 1944, Guido De Ruggiero diceva esplicitamente: "Confesso francamente che, mentre riconosco l'urgenza di un'epurazione del personale, ritengo invece improvvida e intemperata la foga riformatrice da cui alcuni sono animati". E adduceva come motivazione la guerra ancora in corso e tutti i problemi ad essa connessi.
Sicché, anche in questo campo, come poi si verificherà nel nuovo assetto politico-sociale dell'Italia, prevalsero le ragioni dei moderati, quando non quelle dei reazionari.
Al mio ritorno a Napoli mi iscrissi subito al Psiup e presi parte molto attiva alla vita del partito, come membro del direttivo della federazione napoletana, oltre che come presidente della commissione femminile, anche se io in realtà ero contraria a costituire in seno al partito un corpo separato.
Mio padre, intanto, che era diventato uno dei dirigenti del Psiup, fu proposto per la carica di sindaco, ma gli alleati posero il veto. Fu poi nominato presidente del Comitato di Liberazione e eletto all'Assemblea costituente. E ancora quattro giorni prima di morire per un tumore, mentre aveva in atto un'emorragia interna, si battè nell'Assemblea a difesa della scuola pubblica e contro il finanziamento dello stato alla scuola privata.
Nell'immediato dopoguerra si accentuò nel Psiup il contrasto fra filocomunisti o fusionisti, come allora si chiamarono, e autonomisti. Io ero convinta della giustezza di un'autonomia del Psi dal Pci, ma non ero per questo su posizioni moderate. Facevo parte di un gruppo giovanile, "Iniziativa socialista", che era contro lo stalinismo, contro la concezione dell'Urss come stato guida, contro la struttura burocratica e centralizzata dei partiti comunisti.
Nel 48 il Pci e il Psi si presentarono alle elezioni politiche con liste unificate. Anche allora, come oggi, ci fu il fenomeno delle madonne piangenti. Come tutti sanno, il 48 segnò poi l'inizio dell'egemonia democristiana.
Si era verificata intanto la scissione di Palazzo Barberini ed era nato, per iniziativa di Saragat (che allora appariva su posizioni diverse da quelle che avrebbe manifestato poi) un nuovo partito, il Partito socialista dei Lavoratori italiani (Psli), che divenne poi il Partito socialdemocratico italiano (Psdi). Io aderii a questo nuovo partito con l'illusione che sarebbe stato il partito sinceramente rivoluzionario vagheggiato da "Iniziativa socialista". Fui nominata nella Direzione nazionale, ma dopo pochi mesi me ne uscii, profondamente delusa, insieme ai compagni di "Iniziativa socialista". Era stato il viaggio di Saragat negli Stati uniti a segnare l'inizio della degenerazione del Psdi. Da quel momento le direttive del partito furono dettate direttamente da Washington e alle casse del partito cominciarono ad affluire i dollari. Anche in seguito io ho continuato a battermi nelle organizzazioni di partito, in cui ho militato, per una prospettiva socialista, per la democrazia interna, per il rispetto delle libertà individuali, per il riconoscimento dei diritti della persona umana. E ho salutato con entusiasmo l'esplosione del 68, che ha riproposto con forza questi temi. Ma la speranza si è spenta presto. Già a metà degli anni settanta è cominciato il decadimento progressivo non solo della società, ma anche della lotta politica. Nel decennio precedente, il Psi, che nel congresso di Venezia del 57 aveva affermato una propria autonoma identità rispetto al Pci, era andato slittando su posizioni sempre più di destra e conquistò così la legittimazione a governare. E' cominciata allora quella tendenza all'accomodamento e al consociativismo, che non si è più fermata ed è culminata con il craxismo degli anni 80, che ha trasformato il Psi in un vero e proprio comitato di affari. Anche per questo cedimento del Psi e per il venir meno - già con Berlinguer e prima della famosa svolta - della funzione di autentica opposizione del Pci, tutto il tono della vita politica oltre che della società civile si è abbassato, lasciando ampio spazio all'arrivismo e alle lotte di potere personali.
Contemporaneamente l'introduzione di nuove tecnologie nel mondo dell'industria ha modificato profondamente la composizione del proletariato. E' scomparsa la figura dell'operaio tradizionale, si sono creati ruoli diversificati di tecnici, è venuta meno la compattezza all'interno della classe operaia, si è appannata la coscienza di classe. Anche nei partiti storici della sinistra sono prevalsi i ceti medi che hanno orientato le scelte in senso moderato e opportunista. Di qui la caduta degli slanci altruistici, delle spinte egualitarie, dell'entusiasmo che animava le lotte operaie.
Oggi sono sotto gli occhi di tutti i frutti di quello che si è seminato e si cerca di correre ai ripari. Ma, ancora, la maggiore forza della sinistra si presenta fiacca e divisa a questo appuntamento cruciale e l'unica forza di opposizione è piccola e debole. Mi sono fatta prendere la mano dai problemi di oggi e mi sono allontanata dal tema. Il fatto è che la Resistenza non è finita, che la lotta per la liberazione non si è conclusa con l'abbattimento del regime fascista. Non si è ancora attuata quella società nuova, più giusta e più a misura d'uomo, per la quale i partigiani hanno combattuto e sono morti. Non possiamo ancora deporre le armi.
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