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I musei napoletani contemporanei

A partire dagli anni ‘70 del 900 il quadro dei nostri musei comincia a diversificarsi. Si arricchisce di nuove tipologie, si affermano – con l’evolversi della legislazione di tutela- inedite modalità di gestione (fondazioni, cooperative, società a capitale misto), si punta a raccolte tematiche e, soprattutto, si comincia ad uscire dai confini dell’antica capitale. In linea con il dibattito nazionale e internazionale si parla e si sperimenta un nuovo ruolo del museo, s’individuano nuovi obiettivi e nuovi ambiti d’indagine e di conservazione. Il numero dei musei si amplifica enormemente. La provincia di Napoli, ad oggi, conta circa 50 musei che vanno dalle grandi raccolte dinastiche ai piccoli musei di associazioni locali, dalle splendide collezioni private alle memorie della fede cristiana, dagli insiemi di antichi strumenti di studio allo Scienze Center. L’accento, soprattutto negli ultimi decenni dello scorso secolo, è comprensibilmente spostato su istituti in grado di soddisfare quell’esigenza di conoscenza e di ricerca sulla storia, le forme, la cultura del territorio richiesta dalle grandi trasformazioni urbanistiche della città e dei suoi dintorni, dall’affermarsi di alcune discipline e, in generale, da un sempre più ampio concetto di bene culturale da conservare e comunicare con le sue specificità. A Napoli, soprattutto nei comuni vesuviani, si assiste – ad esempio- al rapido fiorire di piccole o piccolissime realtà museali dedicate alle tradizioni di alcune aree, alla vita contadina o, più in generale, a quella categoria di beni oggi conosciuti come demoetnoantropologici. Molte di queste, però, hanno finito con l’essere caratterizzate da una vita grama e da collezioni altrettanto povere che le trasformano – di fatto- in un insiemi di oggetti, strumenti e suppellettili dei “tempi che furono” esposti al pubblico senza alcun serio livello di approfondimento. Deboli e poco fruibili , queste istituzioni sono quasi sempre prive non solo o non tanto di fondi, quanto di progetti culturali forti, di sedi adeguate e, soprattutto di un organico in grado di trasformare il museo in ciò che oggi davvero dovrebbe essere, un luogo di identificazione e coesione della società, uno spazio che sceglie ( e non raccoglie semplicemente) i suoi oggetti, li contestualizza al suo interno, crea il loro significato simbolico e assume le vesti oltre che di luogo di conservazione, di istituto di ricerca scientifica e di diffusione culturale. Molto più interessante, nei primissimi anni Ottanta, fu la scommessa – purtroppo persa o comunque da troppo tempo dimenticata - rappresentata dal recupero di uno dei più importanti complessi di archeologia industriale del Mezzogiorno: l’Opificio meccanico di Pietrarsa. Inaugurato nel 1982, il Museo Ferroviario di Pietrarsa sarebbe dovuto essere non solo il più importante Museo Ferroviario italiano, destinato ad illustrare la storia del vapore in Italia, ma anche il punto di partenza di una più ampia e complessa opera di riqualificazione del Miglio d’oro. Museo aziendale ( dipendeva dalle FS) non ha retto alle grandi trasformazione dell’ente di appartenenza e giace chiuso – ormai da troppo tempo- in un’area che mai come oggi necessiterebbe di luoghi in grado di porsi come centri di aggregazione di intelligenze attorno ad un’attività culturale. Ben altro destino è toccato al lungo e non ancora concluso recupero di un’altra area altamente industrializzata (quella dell’Ilva di Bagnoli) sede di una delle più nuove forme museali napoletane che merita una menzione speciale considerati i risultati e la qualità dell’offerta culturale: Città della Scienza. Esito diretto del percorso evolutivo dei musei della scienza, il primo Science Center italiano ha puntato decisamente l’accento sull’impegno educativo costante del pubblico (lifelong learning), sull’immediatezza e l’efficacia della comunicazione ed è oggi sicuramente una delle istituzioni più attente al rapporto museo-scuola. Altrettanto ricca di prospettive di sviluppo la vicenda istitutiva di diversi musei ( quali ad esempio il Castello di Baia, il Museo di Pithecusa o quello della Penisola Sorrentina) legati all’attività della soprintendenza archeologica di Napoli e Caserta. L’idea di alleggerire l’immenso patrimonio archeologico del Museo nazionale di Napoli, trasformando quest’ultimo in una sorta di perno di una rete decentrata di musei, prende corpo, sostanzialmente, negli anni Ottanta, quando l’idea “dal museo al territorio” ribaltandosi in quella “dal territorio al museo” spinge a favorire - direttamente o indirettamente attraverso la partecipazione degli enti locali- la nascita di istituti museali che avessero come obiettivo primario – quasi sempre raggiunto - la trasformazione dei numerosi e stracolmi depositi di materiale archeologico, in spazi espositivi aperti al pubblico, finalizzati alla divulgazione della conoscenza del territorio. Oggi molti di questi musei stanno diventando “capisaldi attrezzati per un’opera di conservazione globale estesa alla generalità del territorio” e, soprattutto, consentono al patrimonio culturale di essere mantenuto nei luoghi cui di fatto appartiene e nel quale storicamente consistono la sua effettiva ragione d’essere e la spiegazione stessa della sua forma. In quest’ottica meritano almeno una citazione il Museo dell’opera di santa Chiara e quello ancor più nuovo di san Lorenzo maggiore. Al recente e grande successo di pubblico riscosso un po’ ovunque dalla musealizzazione dell’arte contemporanea guardano invece i giovanissimi Pan e Madre. Distinti per vocazione (il Pan non ha un’esposizione fissa e punta ad essere uno spazio di documentazione e di esposizione temporanea, il Madre ha voluto invece porsi come sede permanente di opere) i due istituti sono uniti dalla volontà di fornire servizi e strumenti per interpretare il contemporaneo, spiegarlo al pubblico ed educarlo alla coscienza e alla lettura della straordinaria molteplicità di connessioni che esso offre. Grandi e complessi i loro obiettivi culturali, troppo presto per poterli valutare con imparzialità. Non è invece più giovane il museo che chiude questa rassegna e che, per chi scrive, rappresenta la più grande occasione mancata degli ultimi decenni ma anche lo spazio che, più d’ogni altro, potrebbe – se adeguatamente ripensato – diventare lo spazio di riconoscimento della diversità e della specificità del territorio napoletano: il Museo Civico di Castelnuovo. Aperto nel 1990, questo museo aveva tutti i requisiti per essere il “museo della città”. Il Castello, caratterizzato da una notevole rispondenza tra luogo espositivo e buona parte del materiale ospitato, offriva ampi spazi articolati per un uso rinnovato della macchina-museo, delle raccolte e dei singoli oggetti. Allestito inoltre con il contributo di specialisti, poteva puntare facilmente ad essere un’esposizione strutturata in senso didattico ed educativo che ripercorresse e illustrasse la storia della città e dei suoi rapporti con il territorio. Tutto questo non è accaduto. E Napoli attende ancora uno spazio che ne rappresenti la storia, il suo essere insieme complesso e talvolta contraddittorio di beni, luoghi, tradizioni, paesaggi. Attende un centro d’interpretazione della sua millenaria vicenda più che semplicemente un luogo di conservazione, un punto d’accesso al suo ampio e diversificato sistema culturale, un punto di partenza - fisico e intellettuale - oggi più che mai necessario per la comprensione e l’esplorazione di quel grande patrimonio che ancora conserva nei suoi luoghi di origine.

Nadia Barrella

 

 

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