L'Italia repubblicana - Attività economiche e produttive - Industria

L’industria nei difficili anni Sessanta

Negli anni Sessanta l’industria di Napoli e provincia continua a presentare un quadro tra luci e ombre, in cui a momenti di crisi, a settori e singole fabbriche in difficoltà si accompagnano fasi espansive, nuovi impianti, importanti ampliamenti e ristrutturazioni. Il triennio 1962-’64 è problematico per tutto il Paese, a causa del rialzo dei prezzi, del maggior costo della manodopera, delle minori commesse statali, delle restrizioni creditizie, dell’aumento della concorrenza estera, della crisi del mercato interno. Da qui vari episodi di deindustrializzazione a Napoli, con la perdita di 24.000 posti di lavoro, oppure un notevole ricorso alla Cassa integrazione. In questo periodo si verifica anche un brusco arresto dell’attività edilizia e un notevole ridimensionamento dei finanziamenti Isveimer.
Eppure nel frattempo nasce l’Italsider (gruppo IRI), che rileva e rilancia lo stabilimento Ilva di Bagnoli (che già produce un milione di tonnellate di acciaio e 600.000 tonnellate di laminati).

Italsider, Bagnoli (NA)
Tratto da: Ezia Storelli, Rassegna del lavoro campano, Ipsi Pompei 1962

Ne scaturisce un  notevole incremento produttivo, una maggiore automazione, ma anche già problemi di smercio e di inquinamento. Collegati all’Italsider  e in espansione sono alcuni stabilimenti siderurgici minori di Torre Annunziata (Dalmine, Deriver). Nuove fabbriche, di medie dimensioni, con in genere 2-300 operai, vengono fondate dall’industria settentrionale (Ignis sud, Pirelli) o dalle multinazionali (Alsco Malugani, Ciba-Geigy, Richarson-Merrrel, Knorr, Pepsi Cola, Unilever, Fag, e altre) attirate dagli incentivi e dalla politica della Cassa del Mezzogiorno, dalla manodopera a basso costo, dall’espansione del mercato italiano. Nella seconda metà del decennio l’Isveimer riprende ad erogare crediti a tutto spiano (superando quelli del biennio già alto 1962-63).
In affanno sono però i settori tradizionali (calzature, guanti, mobili, conserve, pasta), che subiscono la concorrenza settentrionale: molte piccole fabbriche e ditte artigiane chiudono. La crisi dei settori tradizionali comporta una diminuzione del peso dell’imprenditoria indigena e il notevole aumento della disoccupazione. Frattanto dal 1964 l’industria italiana, privata o pubblica, riprende la sua corsa e si acuisce il divario con il Sud. L’economia napoletana sopravvive ad un certo livello solo grazie ai lavori pubblici, all’edilizia e alle partecipazioni statali, basati per lo più interventi isolati, senza un’efficiente programmazione.
Per dare una risposta a questi problemi cerca di fare la sua parte anche l’amministrazione provinciale: dalla sua iniziativa scaturisce nel 1964 il Consorzio per l’area di sviluppo industriale di Napoli, a cui aderiscono anche la Camera di Commercio, il Comune di Napoli, il Banco di Napoli, l’Isveimer, l’IRI e l’Unione industriali. Il nuovo ente si propone la rinascita economica e sociale della provincia, attraverso la redazioni del piano regolatore dell’area di sviluppo industriale e per la realizzazione delle infrastrutture necessarie (strade, ferrovie, allacciamenti fognari, approvvigionamento di acqua e energia elettrica.

Alfa Romeo, Pomigliano d'Arco (NA)
Tratto da: Ezia Storelli, Rassegna del lavoro campano, Ipsi Pompei 1962

Una risposta importante viene qualche anno dopo dalla creazione a Pomigliano d’Arco dello stabilimento automobilistico Alfasud: progettato già dal 1966, lo stabilimento viene costruito dal 1968 e inizia la produzione qualche anno dopo; oltre 6.000 gli addetti, tra dirigenti, tecnici e operai. Dopo la nascita dell’Alfasud, l’industria privata italiana investe a Napoli e provincia, attratta dalle agevolazioni fiscali, dalla minore sindacalizzazione della classe operaia. Dal canto suo la Finmeccanica fonda nel 1969 la Aeritalia e nel 1970 l’Italtrafo, che produce motori elettrici. Tutto il settore metalmeccanico cresce, grazie anche a Ilva e Dalmine: tra il 1969 e il 1972 si passa da 18.000 a 33.000 occupati. Tuttavia continua la crisi di industria conserviera, molitoria e pastaria, i cui addetti si dimezzano. In crisi sono anche i settori tessile (le MCM chiudono i due grandi stabilimenti di Poggioreale) e dell’abbigliamento. Ciò provocava un crollo del reddito prodotto dal settore industriale, che passava, nella provincia di Napoli, dal 37,1% del 1961 al 29,8% del 1971. Inoltre permaneva il problema del ridotto numero di aziende medio-piccole rispetto alle grandi aziende, soprattutto pubbliche. A questa già difficile situazione si aggiunge nell’ottobre 1973 scoppiava la crisi energetica, che spazza via quel poco che restava dell’industria tradizionale, manda in crisi Italsider e Alfasud, spinge le multinazionali estere a chiudere le fabbriche.

Silvio de Majo

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