L'Italia repubblicana - Attività economiche e produttive - Economia marittima
L’affermazione dell’armamento napoletano a livello internazionale

L’impatto del secondo conflitto mondiale sull’armamento napoletano è disastroso. La guerra ha nel Mediterraneo uno dei suoi principali teatri d’operazioni e Napoli, porto strategico per i collegamenti con i territori d’oltremare, è particolarmente presa di mira dai bombardamenti aerei. Le distruzioni delle infrastrutture portuali sono ingenti, ma a fine guerra le perdite di naviglio napoletano risultano meno pesanti rispetto al dato nazionale (il 73% contro il 90% del tonnellaggio del 1940). Inoltre lo scalo partenopeo si trova a svolgere il ruolo di principale snodo logistico: in un primo tempo per l’affluire di rifornimenti, uomini e mezzi alle armate angloamericane impegnate per altri 20 mesi sul fronte italiano, in seguito per lo sbarco degli aiuti statunitensi alle popolazioni liberate, infine, al termine del conflitto, per riportare oltreoceano uomini e mezzi.
Tutto ciò spiega perché gli operatori marittimi della provincia di Napoli già ai primi di gennaio ‘44 costituiscono l’Associazione Italiana Armatori Meridionali; i soci sono una cinquantina, quasi tutti provenienti dai tradizionali centri marinari del golfo, e nel giro di pochi mesi mettono insieme una flotta mercantile di un centinaio d’imbarcazioni, sebbene alcune siano molto vecchie e altre riparate alla meglio. Le occasioni non mancano ed anche vecchie carrette del mare, costruite nell’800, vengono impiegate con profitto per il trasporto degli ebrei europei verso la Palestina, facendo la spola tra Marsiglia, Napoli e Jaffa. Poi, per rispondere alla crescente domanda di noli, vista la perdurante penuria di materie prime, si giunge persino ad ordinare la costruzione di bastimenti di legno ai cantieri da spiaggia del golfo (per esempio il Nino Bixio di G. Longobardo e il San Michele di Mario Starita). 
I finanziamenti del Piano Marshall (1948) consentono di rinforzare la flotta mercantile, grazie all’acquisto delle famose Liberty, navi «soldato» di circa 7.000 tonnellate, costruite negli Usa e in Canada tra il ‘42 ed il ‘44. Del primo stock di 50 concesse all’Italia, ai napoletani ne toccano una decina. La parte del leone la fa Achille Lauro, che ne ottiene ben quattro, mentre le altre vanno a Lauro & Montella, Scinnicariello, Mazzella, Raffaele Romano e Bottiglieri. Nello stesso tempo si provvede al recupero di navi affondate durante la guerra e si comincia ad ordinarne altre nuove ai cantieri nazionali: le prospettive di lavoro e di profitto sono buone grazie ai sintomi di una vivace ripresa produttiva a livello mondiale. A prolungare la fase ascendente dei noli contribuisce lo scoppio della guerra di Corea; infatti gli Usa, in difficoltà per l’intervento cinese, ricorrono a tutto il naviglio disponibile per imbarcare rapidamente il materiale bellico, che ancora resta in Europa, e portarlo in Asia; dopo l’armistizio del 1953, i prezzi dei noli rimangono ugualmente alti e remunerativi perché nel frattempo, completata la ricostruzione, la produzione industriale italiana comincia a crescere a ritmo accelerato per tutto il decennio, come pure l’interscambio tra l’economia nazionale e quella mondiale.
Il secondo dopoguerra, dunque, rappresenta per l’armamento napoletano la congiuntura più favorevole che si sia mai presentata: già nel 1948 il tonnellaggio complessivo risulta quasi raddoppiato (+88,9%) e continua a salire a ritmi sostenuti fino al 1952 e poi, più regolarmente, fino al 1958. Cresce la dimensione delle navi tenute in esercizio; si affermano inoltre numerosi armatori che, anche con solo due navi, ma di medie dimensioni, si affiancano al più ristretto gruppo di armatori e società emersi nei due decenni precedenti. Per la prima volta nella storia dell’Italia unita e in modo durevole, s’afferma a sud un ceto imprenditoriale che, utilizzando il mare come risorsa, giunge a far concorrenza alle forze economiche del nord di più consolidate tradizioni marinare ed armatoriali. È certamente un fenomeno com­prensibile solo nel quadro dello sviluppo economico dell’intero Paese, ma è innegabile che presenta elementi di novità e un grado di autonomia, che non è possibile disconoscere.
Oltre ai più antichi casati armatoriali usciti vincitori nel difficile passaggio dalla vela al vapore (Lauro, Cafiero-Scinnicariello, Montella, Longobardo, Romano, Bottiglieri) cominciano ad inserirsi nel settore dello shipping altri operatori, originari delle isole o dei centri marittimi del golfo, anch’essi eredi di antiche tradizioni familiari legate al mare, come – tanto per citarne alcuni – i Mazzella, gli Onorato, gli Andalò, i D’Amato e i Grimaldi, figli, questi ultimi, di una sorella di Achille Lauro. Ma a partire dal 1957 l’eccesso di offerta inverte la tendenza al rialzo del prezzo dei noli; il protrarsi della crisi ben oltre il 1960, nel giro di un decennio, ridimensiona notevolmente la flotta mercantile campana rispetto a quella nazionale e molti armatori sono costretti al ritiro.
A Napoli per le società di navigazione seguono decenni di faticosa resistenza (alla concorrenza nazionale e internazionale) e di ristrutturazione (alla ricerca della migliore posizione) in un mercato in profonda trasformazione. Resistono pure la Tirrenia, sostenuta dalla mano pubblica per servizi di linea nel Mediterraneo e la Società Rimorchiatori Napoletani. Per la Flotta Lauro, al contrario, sono gli anni dell’apogeo: infatti giunge ad avere 50 navi, per oltre un milione e 200 mila tonnellate, con 16.000 dipendenti, con un fatturato di oltre 200 miliardi, tale da risultare la sola azienda privata meridionale di dimensioni mondiali. Si tratta di un impero marittimo conosciuto in tutti i mari, ma la sua organizzazione aziendale, rimasta ferma al modello iniziale, non è in grado di cogliere i cambiamenti (la rivoluzione dei container) e, dopo una serie di investimenti sbagliati e di incidenti, nel 1981 fallisce.
Completamente diverso l’esito per le altre aziende, che proprio tra gli anni ’70 e ’80, pur conservando l’assetto di società familiari, anzi proprio valorizzando le risorse umane interne al casato, si ristrutturano in funzione di una maggiore elasticità per adattarsi alle profonde trasformazioni della geografia mondiale dello shipping che la “rivoluzione” dei container si avvia a configurare.  Non abbandonano i settori d’origine, ma diversificano le attività con navi sempre più grandi e tecnicamente specializzate rispetto al tipo di merce da trasportare (portacontainer, portarifuse, tank); rafforzano la presenza nel naviglio di servizio (rimorchiatori, navi appoggio, posacavi, eccetera); delocalizzano le sedi e diversificano le loro attività, consapevoli della dimensione nazionale e internazionale del sistema dei trasporti marittimi; non abbandonano, però, l’ambiente dei piccoli centri marittimi del golfo di Napoli, dove si sono formati, da cui traggono i quadri superiori della loro organizzazione e da cui attingono anche parte delle risorse finanziarie.
Nel giro di un paio di decenni acquistano dimensione internazionale e posizioni leader la Msc di Aponte, la Moby di Onorato, l’Augustea e le altre società del gruppo Cafiero-Scinnicariello, i fratelli Grimaldi, i Bottiglieri, i D’Amato, i D’Amico, Ievoli, il gruppo Deiulemar (Della Gatta, Iuliano, Lembo), la Gestioni Armatoriali di Coccia e Castaldi, napoletani, in società con la famiglia Casadei-Bazzi di Ravenna. L’onda della mondializzazione, che esse hanno saputo anticipare e al cui sviluppo danno un contributo notevole, permette loro di diventare grandi società con decine e decine di navi nuove, con fatturati da capogiro. Uno dei fattori di questa affermazione è il nuovo ruolo assunto, dopo secoli, dal Mediterraneo che, in meno di vent’anni, raddoppia la quota annua di traffico mercantile marittimo mondiale che attraversa le sue acque.
Con la riforma dei porti e la creazione del Registro Internazionale Navale alla fine degli anni ‘90, la marina mercantile italiana torna ad essere tra le prime nel mondo, per efficienza, qualità ed età delle navi, contribuendo in modo decisivo alla formazione del pil e dei valori esportati e, soprattutto, all’occupazione. A venticinque anni dalla morte di Achille Lauro e dal crollo del suo impero marittimo, i gruppi armatoriali della provincia di Napoli, con oltre 500 navi, controllano il 40% del tonnellaggio complessivo battente bandiera italiana, cui vanno aggiunte le quasi 300 navi della Msc di Aponte, uno dei massimi leader mondiali nel settore delle portacontainer. Il porto di Napoli non è rimasto escluso da questa crescita ed è diventato punto di riferimento delle rotte mercantili provenienti dall’Asia Orientale e del movimento crocieristico mondiale. L’intero sistema della navigazione e delle attività a terra connesse, occupa in tutta la provincia alcune decine di migliaia di addetti e costituisce senz’altro uno dei suoi pochi poli di sviluppo economico e di occupazione.

Francesco D’Esposito e Biagio Passaro

 
 
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