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L’acquedotto di Serino

Dopo l’Unità emerge con grande evidenza la necessità di dotare Napoli di un acquedotto nuovo e dalla amplissima portata, perché l’acqua dei vecchi condotti della Bolla  e del Carmignano è del tutto insufficiente e spesso inquinata. Pertanto dal 1861 per molti anni ingegneri, architetti e amministratori comunali formulano proposte sulle sorgenti da sfruttare e sul percorso preferibile, discutono delle migliori modalità di costruzione e gestione dell’acquedotto, si occupano delle gare d’appalto e vagliano le migliori offerte.
Dopo molte discussioni si sceglie di ricreare in parte il vecchio acquedotto Claudio, di epoca romana, che partiva da Serino in Irpinia, dandogli però un itinerario diverso per consentire l’arrivo dell’acqua ad una quota abbastanza elevata e quindi consona alle altitudini di molti quartieri di Napoli. Per realizzare l’impianto occorre, però, un investimento enorme, che può essere compiuto solo da un’impresa straniera con alle spalle il capitalismo più spinto. Da qui le lunghe trattative tra il Consiglio comunale e alcuni ingegneri e finanzieri inglesi e la scelta, nel dicembre 1877, da parte del Municipio napoletano, di garantire agli assuntori un incasso pari al  6% del capitale investito per costruire l’acquedotto, calcolato forfettariamente in 30 milioni di lire. L’anno successivo viene stipulato il contratto d’appalto con la Naples Water Works Company-Limited, in cui interviene la Compagnie générale des eaux, un’azienda parigina che, attraverso la controllata Compagnie Générale des eaux pour les etrangers, costruisce vari acquedotti in Italia.
Risolti i vari problemi, nel 1882 possono avere inizio i lavori, affidati ad una delle maggiori imprese italiane edili, la Società Veneta per Imprese e Costruzioni Pubbliche (SVICP), dell’ingegnere e deputato padovano Vicenzo Stefano Breda, che in quegli stessi anni costruisce altri importanti acquedotti (Venezia, Vicenza, Padova, Verona), diverse linee ferroviarie del Nord-est, diversi grandi edifici in varie città d’Italia e in particolare a Roma (il ministero delle finanze, il forte Aurelio, il forte Braschi, il quartiere residenziale dell’Esquilino) e il primo grande stabilimento siderurgico italiano, la Terni. In circa tre anni, l’azienda realizza un imponente impianto: 60 chilometri di condutture da Serino a Cancello, di cui 42,500 in canali a cielo aperto, 14,500 in galleria, 1,700 in ponti canali e 1,100 in sifoni (grandi tubi di ghisa); tra Cancello e Napoli (circa 20 km di distanza) l’acqua si ripartisce in tre sifoni, uno del diametro di 700 millimetri, due da 800, per una lunghezza complessiva di oltre 60 km. Arrivata in città, confluisce in due grandi serbatoi, uno a Capodimonte (Porta grande), l’altro allo Scudillo, da dove parte una capillare rete di distribuzione all’interno della città: inizialmente circa 100 km, che sono incrementati rapidamente negli anni successivi, fino a raddoppiare alla fine del secolo.

Il 10  maggio 1885 ha luogo l’entusiastica inaugurazione dell’impianto, da parte del re Umberto I, alla presenza delle autorità cittadine capeggiate dal sindaco Nicola Amore. Due le località prescelte per l’evento: il serbatoio di Capodimonte, nel primissimo pomeriggio, e, a seguire,  la piazza del Plebiscito; in entrambe si attende l’arrivo dell’acqua, fino al riempimento delle immense gallerie, a Capodimonte, e fino al suo esplosivo sbocco dalla fontana (oggi scomparsa), nella piazza, davanti ad una folla immensa in visibilio.
Con questo acquedotto Napoli per decenni non avrà problemi di approvvigionamento idrico e riuscirà sia a rispondere alle esigenze di una popolazione in crescita, sia a fornire l’acqua potabile ad un gran numero di comuni della provincia. Solo in seguito al grande sviluppo demografico dei quartieri alti e di molte cittadine dell’hinterland, dopo la seconda guerra mondiale, l’acqua di Serino risulterà insufficiente e si renderà necessario costruire altri acquedotti.

Silvio de Majo

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