Tra le due guerre - Attività economiche e produttive - Industria

Industrie a Torre Annunziata (secoli XIX-XX)

La storia dell’industria metalmeccanica a Torre Annunziata ha inizio con la fabbrica d’armi fondata dai Borbone a metà Settecento assieme ad una ferriera, attigua ad una polveriera seicentesca. Nel 1856, dopo uno scoppio, la polveriera viene chiusa ed i suoi locali sono annessi alla fabbrica d’armi, che si espande ulteriormente nei decenni successivi, incorporando un pastificio dismesso ed altre aree contigue. Notevole è, pur tra alterne fortune, lo sviluppo in età liberale e durante il fascismo, sotto la gestione del ministero della guerra del Regno d’Italia. Nell’Ottocento Torre Annunziata è una cittadina industriale soprattutto per la presenza di decine di molini e pastifici, che nel periodo compreso tra il 1880 e la prima guerra mondiale hanno un grande sviluppo, arrivando a oltre cento unità produttive, di cui un buon numero costituito da edifici industriali di notevoli dimensioni, a sviluppo verticale, localizzate, come la fabbrica d’armi, nel centro abitato.

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Tratto da: Augusto Vitale, Napoli e l'industria 1840-1990,
Camera di Commercio di Napoli, Collana Studi per il Mezzogiorno

Ridimensionati dopo la prima guerra mondiale ed ancor più dopo la seconda guerra, scompaiono del tutto negli anni ’50 e ’60 del XX secolo. Molto diversa è la localizzazione dei grandi complessi siderurgici e metalmeccanici che caratterizzano la storia industriale di Torre Annunziata: dotati di amplissimi spazi esterni ed interni, sorgono in posizione periferica, spesso prospiciente al litorale. Il primo insediamento industriale di questo tipo risale agli anni ’80 del XIX secolo, quando alcuni imprenditori e finanzieri francesi (A. Natanson, R. Duchè, M. Gaugnat, F. D'Hautpoul), fondano un moderno stabilimento siderurgico dedito esclusivamente al trattamento dei rottami di ferro, denominato prima Natanson-Duchè & C. e poi Ferriere del Vesuvio. Alla fine del secolo le sue notevoli potenzialità, per la vastità dell’area occupata, la relativa modernità degli impianti e la vicinanza al mare, attirano la Società anonima delle ferriere italiane, uno dei maggiori complessi siderurgici italiani, che lo acquista, lo amplia ulteriormente e lo ammoderna. Nel 1911 viene incorporato nell’Ilva, che ha la sede principale a Bagnoli; da questo momento la sua storia segue quella dell’azienda madre, con alcune differenziazioni: grande sviluppo durante la prima guerra mondiale, grazie alla continua e cospicua espansione della domanda da parte delle aziende metalmeccaniche che producono per l’esercito; chiusura per la crisi postbellica, tra il 1920 ed il 1924; ripresa dal 1926, quando in particolare l’impianto tornese viene completamente rinnovato (1.100 operai nel 1930); nuova espansione bellica durante la seconda guerra mondiale, che apporta anche nel 1943 grandi distruzioni per i bombardamenti; crisi postbellica e chiusura definitiva della sede di Torre Annunziata negli anni ’50, quando tutta la produzione siderurgica dell’azienda viene concentrata a Bagnoli. La chiusura dello stabilimento Ilva coincide con la nascita alcuni stabilimenti metallurgici, che assieme a due fabbriche chimiche (Fervet e Lepetit, poi Ciba-Geigy) sono la risposta ai problemi occupazionali dovuti alle dismissioni dell’Ilva e dei tanti pastifici. Creati da investitori pubblici o da privati sostenuti dall’Isveimer, sono destinati ad avere un ottimo sviluppo per circa trent’anni e un rapido declino, fino alla definitiva chiusura, sul finire del XX secolo. Inizia nel 1951 la ITALTUBI, che trae origine da una piccola industria di Piano di Sorrento.

Italtubi, Torre Annunziata (NA)
Tratto da: Ezia Storelli, Rassegna del lavoro campano, Ipsi Pompei 1962

Su una superficie – coperta o scoperta – di 80.000 mq, dà lavoro ad oltre 700 operai e produce due milioni di metri all’anno di tubi di tutte le dimensioni e altri manufatti in amianto-cemento, come coperture per tetti, tubazioni e tanti altri prodotti. Buoni sono il livello tecnologico e l’automazione della produzione; nel 1969 arriva ad un capitale sociale di quasi due miliardi, più che raddoppiato nel corso degli anni ’70; la crisi è degli anni ’90, quando è acclarata la nocività dell’amianto. Nel 1954 inizia la sua attività lo stabilimento Dalmine, emanazione di analoga azienda settentrionale del gruppo IRI Finsider, che negli anni ’50 si espande costantemente fino a raggiungere un’area totale di circa 355 mila mq, con una rete di binari raccordati alle Ferrovie dello Stato per oltre 4 km ed una rete di strade interne per oltre 5 km. con circa 700 dipendenti. Raggiunge una produzione di circa 75 mila tonnellate all’anno, per mercato interno e estero, tra tubi per il convogliamento di acqua potabile e di gas, impianti irrigui fissi e mobili, costruzioni di carpenteria leggera, applicazioni per l’arredamento moderno. In crisi dalla metà degli anni ’80 alterna politiche di tagli occupazionali e ricorsi agli ammortizzatori sociali con timidi tentativi di rilanci produttivi non andati a buon fine. Simile è la sorte della Deriver, installata nel 1963 dalla Finsider nell’ex sito Ilva. L’azienda, che trasforma semilavorati siderurgici in fili, punte, griglie, trecce, reti, funi ecc. ed occupa tra 500 e 1.000 operai, ha circa un ventennio di successi. In grande espansione è soprattutto negli anni ’70 e passa da un capitale sociale di 3 miliardi di lire nel 1969 a 11 nel 1981; si assicura grandi commesse nel campo delle megainfrastrutture per i trasporti e nell’edilizia. Colpita dalla crisi della siderurgia nella seconda metà degli anni ’80, viene rilevata da un’industria privata, la Readelli tecna, ma chiude definitivamente poco dopo.

Silvio de Majo

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