L'età napoleonica - Cultura e Patrimonio - Promozione delle arti - Musei

I musei della provincia di Napoli

La nascita del primo museo pubblico napoletano, quello che oggi conosciamo come Museo Archeologico Nazionale di Napoli, si fa solitamente risalire al 1777. Data infatti a quest’anno il decreto con cui Ferdinando IV stabilisce di riunire le grandi raccolte dinastiche nel Palazzo dei Vecchi Studi per destinarle all’uso pubblico. Pensato per “la compiuta istruzione della gioventù” e per esporre opere che fossero modello sia per gli artisti che per gli artigiani, l’istituto ferdinandeo viene immaginato come un museo enciclopedico in cui possa trovar posto tutto lo scibile umano. La sede prescelta, però, si presenta immediatamente inadatta ad ospitarlo. Occorsero quindi restauri, adeguamenti e modifiche che, rallentati dalla molteplicità dei progetti e dagli eventi politici, consegnarono ai francesi un museo sostanzialmente incompiuto.

Palazzo degli Studi

E’ dunque con Giuseppe Bonaparte prima e Gioacchino Murat dopo che il museo nei vecchi studi comincia a prendere forma. Centro operativo anche della politica di tutela del patrimonio culturale del Regno, il museo - affidato alla direzione di Michele Arditi (1810-1838) - entra proprio in questi anni in una fase decisiva per quel che riguarda l’assetto di alcune sue parti, prima fra tutte la raccolta di statue riorganizzata tra il 1808 e il 1812. Nelle gallerie e nei portici le sculture vengono collocate in fitta sequenza lungo le pareti, allogate in nicchie che conferiscono ad alcune maggior risalto, disposte isolatamente o in gruppi lungo l’asse centrale delle sale. Si seguono, prevalentemente, criteri espositivi tematico-iconografici a cui si uniscono, però, anche scelte dettate da esigenze decorative. Contrariamente all’uso napoleonico delle grandi spoliazioni d’opere d’arte, il museo napoletano (o meglio ciò che i Borbone avevano lasciato a Napoli prima della fuga a Palermo) non subisce depauperamenti. Al contrario, si arricchisce di pezzi famosi, acquisisce una precisa struttura organizzativa, compiti di tutela ben definiti e personale adeguato ai suoi scopi. Tra il 1806 e il 1816 la progettualità in campo museale non si esaurisce alle sole raccolte farnesiane e borboniche nel Palazzo degli Studi. L’estensione dei decreti di soppressione dei monasteri e il conseguente passaggio alla nazione dei beni della chiese avevano resi necessari una serie di provvedimenti atti a tutelare dapprima i soli dipinti provenienti dagli edifici sacri soppressi, poi, con successive disposizioni, biblioteche, “istrumenti fisici”, statue, bassorilievi ed altri oggetti d’arte.

L’ormai diffusa consapevolezza della forte valenza didattica delle opere alienate e l’esistenza di numerosi “depositi demaniali” che si formavano nei diversi municipi saranno all’origine di alcune interessanti proposte: la prima, avanzata sempre da Arditi, è quella di un sistema museale diffuso; la seconda – in parte anche tentata – è una Galleria dei pittori napoletani. Il sistema museale di Arditi, che mostra evidenti affinità con la generale modernizzazione della macchina dello stato e delle sue istituzioni amministrative realizzata dai francesi, per cui il regno non è più concepito come “un’immensa periferia governata da Napoli, ma come una pluralità di centri che amministrano varie e più piccole periferie”, è sicuramente ispirato al programma del ministro francese degli Interni, Jean-Antoine Chaptal, che aveva ipotizzato la nascita di una rete di musei sull’intero territorio francese al fine di ridistribuire l’ingente patrimonio di opere d’arte conservate a Parigi; la Galleria dei pittori napoletani, invece, è legata a Murat che, nel dicembre del 1809, ne decreta l’istituzione. Raccolta “di origine politica”, strumento per la salvaguardia del patrimonio religioso ma anche istituzione precipuamente finalizzata ad una conoscenza “modellata sui luoghi e sulle cose”, la Galleria dei pittori napoletani doveva dare maggiore rilievo alle opere “dei più valenti maestri” e svolgere la duplice azione di “eccitare il genio della gioventù” con l’esempio di coloro che nella “loro Patria acquistarono un nome” e raccogliere opere “ora esposte a degradarsi ed a perdersi, e le quali contengono talvolta fatti rilevanti della Patria”. La valenza didattica dell’opera, tipica del Settecento illuminato e rivoluzionario, torna con forza anche in questo provvedimento ma è nuovo, rispetto a prima, il riferimento “ai fatti rilevanti per la Patria” che punta con forza ad un obiettivo conoscitivo per tutti i cittadini-utenti ed alla formazione di una coscienza “nazionale” perfettamente coerente con le scelte che Murat si accingeva a fare per trasformare Napoli in capitale di un Regno autonomo nell’Europa napoleonica, dotata di un sistema di spazi espositivi di chiara ispirazione francese dedicati rispettivamente alla grande arte (nel Palazzo degli Studi), alla storia e all’arte “nazionale” (la Galleria dei pittori napoletani), alla storia naturale (nell’Orto botanico) e alle arti e le industrie (nel soppresso convento di San Domenico Maggiore a Napoli dove una raccolta di macchine “utili” è affiancata da una collezione di “tutte le mostre degli oggetti d’industria nazionale ed estera”).

Nadia Barrella

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