Il Regno delle Due Sicilie - Cultura e Patrimonio - Promozione delle arti - Musei

La politica museale del Regno delle Due Sicilie

Il ritorno di Ferdinando, I del Regno delle due Sicilie, mostra, sia pur con significative modifiche, un tentativo di continuità con il precedente regime sia per quel che concerne, in generale, la politica di tutela del patrimonio che per la pubblica fruizione delle raccolte. Arditi resta a dirigere il Museo e, questo istituto, all’interno della confermata Soprintendenza, continua ad essere il perno anche dell’azione conservativa svolta sul territorio. La preziose testimonianze di civiltà in esso esposte vengono però dichiarate “di nostra libera proprietà allodiale”, svincolate da ogni vincolo feudale, di piena disponibilità del re e quindi alienabili. L’idea di “bene” protetto e tutelato dallo Stato portata avanti dai francesi viene dunque negata da tale dichiarazione di principio. Rivendicando il titolo squisitamente privato del possesso da parte della sua persona fisica, il re ne affermava di fatto, la separazione netta dai beni della corona e, pertanto, anche dalla proprietà dello Stato. E’ questa una peculiarità giuridica dell’intervento ferdinandeo più volte sottolineata dagli storici che si accompagna, come è stato giustamente osservato, ad una significativa differenziazione operata tra “contenuti” e “contenutori”: i primi (collezioni d’arte e di antichità) considerati appunto allodiali, i secondi (siti reali, regge e palazzi) beni della corona. La restaurata monarchia borbonica, sia pure con questi limiti, non perde comunque di vista l’originario fine educativo e pubblico del Museo dei vecchi studi, lo inaugura nel 1816 e lo denomina ufficialmente Real Museo Borbonico.

Il Real Museo Borbonico in una stampa d'epoca

Uniformandosi a quei principi che si erano ormai irreversibilmente affermati, il museo continua ad accrescersi e, sia pur faticosamente, ad organizzarsi. Arricchito di nuove e importanti collezioni può ormai contare su di un edificio completamente restaurato e su di un regolamento, varato nel 1828, nel quale viene fissato un preciso ordinamento in 13 collezioni. Completato il trasferimento del materiale archeologico dal Museo Ercolanese di Portici nel 1822, arricchitosi sempre più con i reperti che affluivano dagli scavi dell’area vesuviana, il Real Museo Borbonico continua però a sfuggire ad ogni criterio e si presenta, nonostante gli sforzi della direzione, come un sovraffollato deposito bisognoso di un organico assetto che possa in qualche modo corrispondere “alle condizioni attuali de’ progrediti studi e dell’archeologia”. La messa a punto di un primo, serio progetto di riordino – risalente alla direzione di Francesco Maria Avellino (1839-1850) – coincide, purtroppo, con la breve esperienza del governo costituzionale del 1848 e fallisce in una con il rilevante programma di riforma delle principali istituzioni di cultura della città. Per una sua prima e ampia riorganizzazione occorrerà attendere l’Unità d’Italia e il decisivo intervento di Giuseppe Fiorelli. Negli anni che seguono la restaurazione merita di essere ricordato, anche se avrà un significativo sviluppo soprattutto in epoca postunitaria, l’avvio di un sistema di raccolte scientifiche strettamente connesse alla struttura universitaria. Fa da capostipite il Real Museo Mineralogico nella Biblioteca del Collegio Massimo dei Gesuiti. Inaugurato nel 1801 da Ferdinando IV, il Real Museo prendeva le mosse da una raccolta di minerali dei giacimenti minerari europei finalizzata (siamo nel 1789) alla formazione di tecnici capaci di valorizzare e sfruttare le risorse minerarie del Regno. Sarà solo a partire dagli anni 40 però e grazie al direttore Arcangelo Scacchi che l’istituto rafforzerà il suo ruolo di centro di ricerca sulle scienze della terra individuando nel territorio regionale lo spazio per attività d’indagine finalizzate ad uno studio su basi scientifiche della mineralogia vesuviana. Sede, nel 1845, del VII Congresso degli Scienziati il Real Museo Mineralogico diventa lo spazio in cui molta parte dell’elite intellettuale napoletana prende atto “che ogni convivenza con i Borbone era impossibile”, e che il Regno aveva bisogno di ben altro che di un “intervallo di tolleranza”.

Nadia Barrella

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